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Se l’interesse del pubblico per le fibre sintetiche che ha caratterizzato nei decenni passati (soprattutto tra gli anni Settanta e il principio degli Ottanta) il settore dei capi d’abbigliamento invernali si è sgonfiato di fronte all’evidente superiorità dei materiali naturali (meno economici, sì, ma più caldi e anche maggiormente traspiranti e ipoallergenici), è altrettanto vero che questi possono distinguersi in una miriade di lane diverse, provenienti dagli animali più disparati.
Tra gli animali la cui tosatura produce una lana pregiata abbiamo innanzitutto l’angora, proveniente da un particolare tipo di coniglio allevato quasi esclusivamente in Cina. Questo viene spazzolato e tosato ogni tre mesi, per produrre la morbidissima lana d’angora, impiegata in particolar modo per la confezione di morbidi maglioni. Detto del cammello, il cui pelo viene adoperato soprattutto per i cappotti, la maggior parte degli altri animali da tosatura abita in Sud America. Come il lama comune, la cui lana del sottopancia viene sfruttata per i capi invernali, o l’alpaca, altro quadrupede andino il cui pelo (particolarmente impermeabile e dalla consistenza quasi setosa) è però molto più raro, visto che dalla tosatura di un esemplare adulto si ricava giusto una manciata di grammi di lana.
Sempre sulla catena delle Ande abita il guanaco, un animale di piccole dimensioni simile al lama, il cui vello, particolarmente pregiato, viene utilizzato nel settore della pellicceria. Chiude la famiglia di animali andini da tosatura il celebre vigogna. Da questo animale si ricava quella che è in pratica la tipologia di lana più costosa e pregiata in assoluto. Non solo per le qualità innegabili del materiale, quanto e soprattutto per il fatto che la caccia del vigogna è stata proibita da diversi anni sulle vette peruviane nelle quali vive ancora allo stato brado.
Caratteristiche
Dal ramo caprino degli ovini derivano invece gli ultimi due tipi di lane pregiate: il mohair e, per l’appunto, il cachemire. Il mohair è un termine che indica la fibra del pelo di una particolare capra (la cosiddetta capra d’angora) che proviene originariamente dall’Asia Minore, anche se oggi viene allevata anche in altri punti del pianeta. Questa lana vanta soprattutto un’incredibile morbidezza e, una volta lavata, assume il celebre aspetto brillante che la rende così caratteristica.
Quanto al cachemire, si tratta della lana di un animale alquanto raro, il kasmir (da cui il nome del materiale, pur nelle sue varie ortografie) allevato in Tibet, Cina, sugli altopiani mongoli e in Iran. Per ottenere la lana pregiata che tutti conoscono da questo animale vengono seguiti alcuni rigidi criteri in merito alla fase della tosatura vera e propria. Innanzitutto, la tosatura avviene sempre e solo in tarda primavera, nel periodo cioè che risulta il più caldo in quelle regioni nelle quali il kashmir viene allevato. In secondo luogo, a venir sfruttata è solo ed esclusivamente la parte migliore del vello dell’animale, ossia il sottopelo, la parte cioè del vello che cresce sotto la pancia del kashmir.
Quella che se ne ricava, a tosatura ultimata, è una lana di grandissimo pregio, seconda per valore alla sola vigogna. Ma non tutto il cachemire è uguale. A rendere più o meno preziosa una partita di questa lana è infatti lo spessore, il diametro del singolo pelo: più la sua fibra è fine, per farla breve, maggiormente pregiata sarà la lana di cachemire. Per fare un esempio, il cachemire proveniente dalla Mongolia, considerato in linea generale tra i migliori al mondo, ha per ogni pelo un diametro pari a circa 15 micron. Il che significa uno spessore pari a soli 15 millesimi di millimetro!
Terminologia
A generare non poche perplessità tra i consumatori, e ad accrescere ulteriormente (come se ve ne fosse l’effettivo bisogno…) i problemi di interpretazione delle etichette da cui purtroppo tanti equivoci in sede di acquisto trovano origine, ci pensano le tante ortografie diverse con cui il nome cachemire viene riportato sui capi. Oltre alla forma che stiamo utilizzando, “cachemire” per l’appunto, sono tante le ortografie diverse con le quali si indica spesso il materiale.
Da “kashmire” (a volte scritto anche con l’iniziale maiuscola), derivante come visto dal nome dell’animale, a tutta una serie di sue varianti dalle origini più o meno incerte: kashmere (da una traslitterazione anglofoba del termine originale, forse?), cachemir, cachemere, kascmir. Ma non è tutto. Di tanto in tanto capita di imbattersi nel riaffiorare di vecchi nomi che, ormai due secoli fa, venivano attribuiti nel nostro paese a questo prezioso materiale: casimìr, casimira, cascimirra, cascimir, addirittura casimiro. Un proliferare di termini che, come detto, non fa che rendere inutilmente più complesso l’argomento e in districabile la matassa per chi acquista. Sarà bene ribadire quindi che, indipendentemente dal nome impiegato (tra quelli elencati, sia ben chiaro), il materiale in oggetto è sempre lo stesso.
Che venga descritto come cachemire o kashmir, in altre parole, poco cambia. È più che altro ad altri aspetti ben più importanti che il consumatore deve rivolgere la propria attenzione al momento di acquistare un capo di cachemire. Un attento esame dell’etichetta, in particolar modo per quanto riguarda la composizione del capo (le percentuali dei materiale adoperati per la sua confezione), è l’elemento più importante. Anche se, purtroppo, questo non sempre basta per evitare delle fregature. Come dimostrato da alcune indagini condotte dalle associazioni di consumatori che, nella prima metà degli anni Novanta, suscitarono parecchio scalpore: molto spesso, in pratica, i capi acquistati non contenevano la percentuale di cachemire dichiarata…
Etichetta
Una prima indagine, condotta sulla spinta del CDC (Comitato Difesa Consumatori) nel 1993, portò a risultati che solo ricorrendo a un eufemismo si potrebbero definire sconfortanti. Sostanzialmente, su tutti i capi acquistati (provenienti da una gamma ovviamente molto ampia di marchi celebri del settore) la percentuale di cachemire effettivamente presente era notevolmente inferiore a quanto dichiarato dalle etichette: laddove si vantava un 30% minimo di cachemire, la quantità del prezioso materiale non arrivava che al 5 / 7% del totale. Le etichette, per dirla in altri termini, mentivano sapendo di mentire.
E, nel farlo, violavano palesemente la legge (legge 883 del novembre 1973 sull’etichettatura), la quale prevede sì un margine di tolleranza, sancendo che per “i prodotti tessili ottenuti con il ciclo cardato” le fibre estranee fino al 5% del peso totale possano non essere dichiarate in etichetta, ma è altrettanto pacifico che i casi in esame andassero ben oltre questo pur ampio margine concesso dal legislatore italiano. Nonostante l’intervento dell’autorità amministrativa, e le promesse di rito di maggiori e più severi controlli in materia, altri esami a campione condotti negli anni successivi sempre dalle associazioni dei consumatori hanno dimostrato come il fenomeno continuasse a perdurare. E, ragionevolmente, continua a farlo tuttora.
La difficoltà di condurre questi esami (che richiedono un complesso procedimento chimico) rende di fatto impossibile al semplice consumatore distinguere la quantità di vero cachemire presente in ciò che compra, costringendolo ad affidarsi ad etichette e dicitura che, nei migliori dei casi, risultano non del tutto sincere. Si va così da situazioni in cui a una percentuale dichiarata di cachemire corrisponde una realtà dei fatti di gran lunga inferiore, a quelli in cui il capo è realizzato solo con degli scarti del materiale originale, rendendo in pratica improprio l’utilizzo del termine stesso di “lana cachemire” per quel capo.
Falsi
Ma se quello che viene dichiarato cachemire sulle etichette non è (in tutto o in parte) vero cachemire, come abbiamo visto, allora cos’è? Le soluzioni adottate dai produttori per gonfiare quelle percentuali, utilizzando altro tipo di lana, sono in effetti diverse. In alcuni casi si ricorre alla lana classica, semplicemente truccando le percentuali dei materiali impiegati. Così, maglioni di pregio (e spesso dal costo elevato) per i quali è dichiarata una composizione pari al 55% di lana e restante 45% di cachemire si scoprono invece contenere una percentuale di cachemire di poco superiore al 10%, laddove tutto il resto è semplice lana comune. Ma questa, come visto, è solo la più rosea delle situazioni, per quanto paradossale possa suonare.
Spesso e volentieri, infatti, quanto manca a colmare il gap esistente tra il dichiarato (in cachemire) e il reale, viene colmato ricorrendo a fibre sintetiche. Con il risultato che chi spende una quantità consistente dei propri euro per acquistare un maglione di una lana pregiata si ritrova, suo malgrado (e nella stragrande maggioranza dei casi, purtroppo, senza modo di potersene rendere conto), a indossare un capo che contenga poliammide, poliestere o materiali simili per una percentuale che arriva a lambire anche il 20% della composizione totale.
E della cui presenza, naturalmente, non v’è spesso alcuna traccia in un’etichetta che si affretta dichiarare come “di pura lana/cachemire” il capo. La sensazione, purtroppo assolutamente negativa, che se ne ricava è quella di un mercato che, pur di rendere appetibili per il grande pubblico, e quindi accessibili come fascia di prezzo, quelli che fino a pochi anni fa erano considerati dei beni di lusso, abbia snaturato le caratteristiche dell’abbigliamento in cachemire, tanto da non rendere “sicuro” l’acquisto anche a chi si rivolga ai capi di maggior costo.
Non resta pertanto, per chi intenda acquistare un bel maglione, rassegnarsi all’idea che non tutto quello che comprerà come cachemire lo sarà davvero. E, magari, affidarsi al suo tatto, come si faceva una volta, per valutare quantomeno con mano la morbidezza del capo.